martedì 21 aprile 2009

All'ombra della fattoria

[...] È in un anfratto tra la paglia che mamma gatta ha partorito: un po’ in ritardo per la verità, ma senza ulteriori preoccupazioni vista l’abbondanza di cibo. Ciononostante Bruto, il vecchio cane, legge nello sguardo della gatta una vena di dolore furtivo che getta un’ombra sul popolo dei gatti. È morto un piccolo e la madre ritorna al nido dopo aver abbandonato il corpicino nella siepe di rovi giù nel fosso, sorvolata dai primi corvi famelici.
Il popolo dei topi, come quello dei gatti, vive un periodo di splendore all’ombra della fattoria. È diventato così prolifico che il vecchio castello di gallerie scavato nelle fondamenta della casa e del granaio è stato ampliato e trasformato in un’autentica “fortezza” con nuove entrate e uscite, cunicoli sotterranei fitti come le maglie di una rete e percorsi incessantemente dai topi di rientro dalle loro scorribande. L’abbondanza di cibo ha talmente esasperato i loro ingordi cervelli che essi ardiscono persino a insidiare le gatte durante l’allattamento. Un topo ha posto l’ingresso della sua tana in un recesso del granaio di fronte al giaciglio dove mamma gatta è solita allattare i piccoli. Siccome è abitudine delle gatte rilassarsi in tali circostanze e propendere al sonno, approfittando della distrazione della madre, il sorcio, sgattaiolando furtivamente tra la prole, è riuscito ad appropriarsi di un capezzolo con la caparbietà consona alla propria specie. Poiché il nostro topo è un abitudinario, la scelta è caduta sempre sul solito capezzolo e a spese del solito gattino, provocandone il lento deperimento per fame.

Le gatte con prole a carico avversano i giovani maschi concorrenti dei piccoli e loro potenziali nemici. I maggiori regolatori demografici dei topi sono Piccodeno e Melidoro. Forse il primo avrebbe superato il secondo se avesse limitato i suoi ampi giri di caccia ai pressi della fattoria. Melidoro invece, sornione e pigro di natura, quando è sveglio attinge soltanto dalle prede di casa. Questa abitudine lo ha eletto acerrimo persecutore dei topi locali. Nell’aria perciò è meno gradito l’odore del vagabondo Piccodeno che quello del sornione Melidoro. Il carattere schivo del gatto in questione aggrava i sospetti già concentrati su di lui dall’accaduto. Così, mentre Piccodeno scende dai tetti con il suo passo da pantera e il mantello altrettanto scuro, le gatte lo circondano in atteggiamento minaccioso. Piccodeno non si stupisce più di tanto per l’accoglienza ricevuta sapendo di non essere gradito dalle giovani madri, ma quando ai soffi e alle zampate subentra il gioco pesante dei cagnolini, la fiera che è in lui si scatena con violenza. Le gatte gli si stringono intorno con il pelo irto, in un tumulto di fischi e zampate dalle quali la vittima sa difendersi e contrattaccare prontamente. Nel momento in cui l’umido tartufo del cucciolo è solcato dagli artigli taglienti e al suo giocoso abbaiare si sostituisce un penoso guaire, il vecchio cane interviene nella disputa. Tra le gatte, in aperta contrapposizione a Bruto, si fa strada Borromea, una vecchia gatta da casa dal lungo pelo color cenere, nota per l’ostilità che nutre verso Piccodeno. Alla sua sola comparsa il pelo irto sulle schiene feline si abbassa in segno di riverenza: il grado stesso della vecchia gatta e la sua posizione di rilievo anche tra gli uomini bastano a condannare Piccodeno. Tutte le gatte pendono dalla loro superiora che non teme neanche l’autorità del cane, anzi la contrasta per principio. “Il gatto è colpevole!” prorompe a un tratto guardandosi attorno con alterigia “Solo un gatto può avvicinarsi a un altro gatto senza essere udito!” La folla manifesta il proprio assenso. Piccodeno è prossimo al linciaggio. “O un topo!” esclama Bruto con calma, suscitando tra i gatti un boato di costernazione. “Un topo? Ma voi ascoltate questo vecchio cane? Come può un topo avvicinarsi al nemico temuto?” La vecchia gatta risponde con una risata sarcastica. Ormai l’immagine di Piccodeno è stata messa al bando. Nessuno però trova in cuor suo il coraggio di scacciarlo, né il cane d’altro canto può intervenire in sua difesa: solo la violenza potrebbe evitare al gatto l’esilio, violenza di cui egli non vuole essere promotore. Il sornione Melidoro, profondo amico del compagno di sterminio Piccodeno, è immerso nel sonno e anche se non fosse stato dedito alla sua principale occupazione, poco avrebbe potuto contro la torma ostile di felini femmina schieratasi contro il principale sospettato.
Ora Piccodeno è solo e può contare solo su se stesso. Deve ammettere la verità dalla quale la madre l’aveva sempre messo in guardia. Ciò che lei prevedeva si è infine avverato. Anch’essa era stata allevata ed espulsa dalla comunità dei gatti, proprio come sta succedendo ora a colui che in un pomeriggio d’estate di un paio d’anni prima aveva trovato la madre morta sotto il nocciolo con la tagliola stretta intorno al corpo. Solo la sua esperienza nell’aver visto ghermite le sorelle dal gufo e dell’allocco lo avevano salvato dal corvo nero. Aveva viaggiato per tutta la notte guidato dall’occhio giallo della luna che, languido come quello della madre in procinto di morire, lo sosteneva nel pericolo infondendogli coraggio finché, esausto, non era caduto addormentato sotto il cipresso nella sua ingenuità di gattino, vicino alla fattoria dove avrebbe trovato l’amore di una madre adottiva. Neanche il passato depone perciò a suo favore: l’odio che Borromea nutriva per la madrina si è ripercosso sul figliastro alla morte di costei che da giovane l’aveva offesa con gli artigli. Ma il gatto non si è mai sentito indifeso di fronte ai suoi simili. La sua fama di cacciatore spietato accresce, nella rabbia, il timore dei nemici. A lungo andare però, Piccodeno, che in fondo al suo menefreghismo nasconde una natura sensibile, capisce che il suo posto ormai non è più nella fattoria. Dopo un tafferuglio nel quale la madre del gattino ucciso gli si è scagliata addosso incolpandolo dell’omicidio di cui è innocente, egli preferisce allontanarsi con il solito passo da pantera, rimpianto da Melidoro e compatito dal vecchio cane, la cui saggezza gli impone di non intervenire in affari che non lo riguardano. Così la gatta Borromea può vantarsi d’aver sconfitto il suo temibile avversario e al tempo stesso d’aver vinto l’ennesima causa che l’ha contrapposta al cane. Povero Piccodeno: talvolta anche la legge della natura è sottoposta ad arbitri. Del giovane gatto non si saprà più nulla.
da "All'ombra della fattoria", 2° posto al X Premio Nazionale di Narrativa "Valerio Gentile" 2007

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